Roveja Accessione di Civita di Cascia
P. sativum ssp. sativum var. arvense L. (POIR.)
RISCHIO DI EROSIONE Medio
DESCRIZIONE La Roveja è un pisello selvatico anticamente coltivato soprattutto per l’alimentazione del bestiame, ma in aree difficili come quelle montane utilizzato anche per l’alimentazione umana. Testimonianza di questo uso sono alcuni toponimi (la “Fonte dei Rovegliari”) e alcune ricette rimaste nella tradizione culinaria (la “farrecchiata”).
L’abbandono generalizzato della coltura ne ha causato la quasi totale estinzione, facendola sopravvivere solo in forma selvatica, finché nel 1998 un’agricoltrice di Civita di Cascia, Silvana Crespi, ha cominciato a riprodurre nella sua azienda i semi ritrovati in cantina, integrandoli in seguito con semi raccolti dalle piante spontanee che crescevano in zona. Ora la coltura sta vivendo una fase di forte espansione anche in ambienti diversi da quello tradizionale. La Roveja di Cività di Cascia dal 2006 è annoverata tra i presidi slow food.
CENNI STORICI [Sintesi da Righi V., “Caratterizzazione genetica della roveja (Pisum Sativum subsp. sativum var. arvense (L.) Poir.) di Civita di Cascia”] In passato la roveja, insieme ad altri legumi, era largamente diffusa in tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana. Questo tipo di pisello, oltre ad essere coltivato, cresceva, e cresce tuttora, in modo spontaneo, nei prati e lungo le scarpate dei monti Sibillini. Era coltivato come pianta da foraggio sia fresco che secco, mentre solo qualche autore accenna ad un limitatissimo uso della granella per scopo alimentare (“Il prodotto del rubiglio è superiore a quello della veccia, tanto in qualità che in quantità; … I semi di rubiglio raramente si usano nell’alimentazione dell’uomo, ma sono eccellenti per l’ingrasso dei montoni, dei maiali, dei volatili… Essi somministrati cotti, oppure crudi, e allora semplicemente frantumati o ridotti in farina”). In Italia, anche come foraggio, era poco coltivato e quasi sempre in consociazione, mentre era diffuso in Francia, Belgio, Germania ed Inghilterra. Nell’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola del 1883 è riportato che esistono due varietà di “Rubiglio”, una precoce e un’altra tardiva. Mentre la veccia era coltivata ed utilizzata anche per l’alimentazione umana, per la roveja si riporta solo l’utilizzo come foraggera: “Il pisello grigio o selvatico o rueglio, simile al coltivato, a fiori violacei, piccoli, con semi grigioscuri o verdastri. Ama terre piuttosto forti, come la veccia, ed è abbastanza resistente alla siccità. Si semina a spaglio…”. (PASOLINI, 1915). La crisi di questa coltura è iniziata nella seconda metà del ventesimo secolo, quando il miglioramento genetico e l’avvio di allevamenti specializzati hanno fornito animali con migliori performance produttive e richiesto la coltivazione di foraggi con un più alto valore energetico. L’evoluzione in campo zootecnico, combinata con l’aumento di benessere, e la maggiore redditività di altre colture hanno determinato le condizioni per un rapido declino della coltura. Esistono molteplici riferimenti storici che testimoniano la presenza e l’utilizzazione della coltura in Umbria. Ad esempio, secondo quanto riportato da Giacchè e Menghini (2000), nel 1545 lo Statuto di Montesanto di Sellano imponeva la coltivazione di diverse civiae (leguminose), fra le quali la roveja, alla quale dovevano essere affidati 2 m per ogni orto. Un altro riferimento si trova in un testo classico di agronomia, La Divina Villa di Corniolo della Cornia, scritto a cavallo tra il XIV ed il XV secolo. Nell’articolo del 1923 “Uno sguardo d’insieme all’alta Montagna Umbra e alla sua economia “contenuto in “Umbria Verde”, Francolini e Buzi riportano che, oltre alla lenticchia e i ceci, “tra le Colture degne di menzione sull’altipiano del Castelluccio […] (vi è) la roveglia (pisum arvensis), dì cui si fa larga esportazione a Roma”. Tra l’altro, nei dintorni di Preci (Perugia), in località Colmezzo, si trova una fonte, “Fonte di Acquaviva”, che in passato era chiamata “Fonte dei rovegliari”. La sua presenza è testimoniata anche dal fatto che spesso è menzionata nelle cosiddette Pasquarelle, testi poetici uniti a motivi musicali di antichissima usanza diffuse in Valnerina e stretti dintorni: “… Ce sta la roêjia, ru cece, la lènta. ce sta la pulenta, che puòcu ce fa. Salami e ventresche oppure uova fresche…”. Silvana Crespi, avendo trovato circa 3 hg di semi nella cantina della casa di famiglia e non conoscendo l’identità di quei semi, svolse alcune indagini per capire di cosa si trattasse. Da allora ha raccolto nel tempo una serie di testimonianze di persone, in Umbria e fuori, che hanno identificato il seme, ricordandone sia la coltivazione che gli usi. Interessanti sono i molti nomi con cui la coltura veniva chiamata nelle diverse zone d’Italia, ognuno dei quali fa presumibilmente riferimento ad una specifica caratteristica della pianta.
ZONA TIPICA DI PRODUZIONE Sulla base delle testimonianze storiche il territorio tradizionale è da considerarsi quello che interessa i Comuni di Norcia, Cascia e Preci. L’abbandono generalizzato della coltura ne ha causato la quasi totale estinzione, facendola sopravvivere solo in forma selvatica, finché nel 1998 un’agricoltore di Civita di Cascia, Silvana Crespi, ha cominciato a riprodurre nella sua azienda i semi ritrovati in cantina, integrandoli in seguito con semi raccolti dalle piante spontanee che crescevano in zona. La signora Silvana ha rilanciato la coltura, creando un’associazione di produttori a cui ha fornito il suo seme, e facendo diventare il prodotto presidio Slow Food. In seguito a questo, il prodotto ha ritrovato notorietà nella zona di coltivazione tradizionale ed alcune aziende hanno ricominciato a produrre roveja, ma in realtà nessun’altra popolazione autoctona di roveja è stata mai recuperata: il seme delle popolazioni coltivate al di fuori delle 4 aziende facenti parte dell’associazione proviene dal prodotto commercializzato oppure da fonti commerciali esterne al territorio umbro. Questo giustifica l’attribuzione del nome di “Roveja di Civita di Cascia”, richiesto espressamente da Silvana Crespi, come riconoscimento per l’unicità dell’accessione originaria da cui derivano pressoché tutte le popolazioni attualmente coltivate in Umbria.
UTILIZZAZIONE GASTRONOMICA Il sapore “pieno” della granella rendeva, e rende tuttora, la roveja adatta alla preparazione di primi piatti e contorni. Da segnalare, in particolare, la “farrecchiata” o “farecchiata”, una specie di polenta dal gusto intenso e vagamente amarognolo ottenuta dalla farina proveniente dalla macinazione della granella con gli stessi mulini a pietra del farro (da qui il nome farrecchiata), che viene condita tradizionalmente con un battuto di aglio, olio e alici; risulta ottima anche il giorno dopo, affettata e abbrustolita in padella. Le Monografie di famiglie agricole dell’INEA (1933, Allegato 4) rivelano che, nell’ordinamento colturale adottato da una famiglia di piccoli proprietari del piano di Castelluccio, la roveja aveva praticamente la stessa dignità delle altre leguminose (lenticchia 0,5 ha; mochi [Vicia ervilia (L.) Willd.] 0,5 ha; roveglia 0,4 ha). Ne viene descritta, inoltre, la modalità di consumo, che consiste in “una specie di polenta, detta farecchiata, […] si rovescia sopra una tavola, si condisce con olio, alici, o anche grasso di maiale, oppure si frigge; è di sapore amarognolo, ma bene accetta da queste popolazioni che la consumano abbondantemente”. Oggi la roveja sta assumendo i caratteri del prodotto tipico. Figura con successo nel menù di alcuni ristoranti e agriturismi umbri e marchigiani, nei quali è possibile trovare la polenta di farina di roveja ripassata in padella con cipolla e pecorino, la pasta e roveja, i crostoni con purea di roveja.
Testi tratti da “Schede Registro Regionale delle risorse genetiche autoctone della Regione Umbria”.